La conclusione delle operazioni di assegnazione e trasformazione agevolata avvenuta lo scorso 30 settembre 2016, anche alla luce della probabile riapertura contenuta nel disegno di legge Stabilità 2017, attualmente in corso di discussione in Parlamento, induce a riflettere su quelle che sono le conseguenze che si producono o si sono prodotte in capo alla società e ai soci per effetto delle predette operazioni.

È proprio con riferimento ai modelli di società personali che si pongono delicati temi che attengono ai profili di responsabilità dei soci e della società rispetto ai creditori, con soluzioni che appaiono diverse in ragione delle singole fattispecie societarie. Tralasciando i profili di responsabilità del socio per le obbligazioni sociali, nel presente contributo cercheremo invece di analizzare la posizione della società rispetto al creditore particolare del socio, considerando i diversi disposti normativi che risultano applicabili alle società in nome collettivo (e, per rimando, alle società in accomandita semplice), rispetto al modello della società semplice.

Sul punto è opinione comune che le società in nome collettivo e quelle in accomandita semplice siano maggiormente tutelate dalle pretese patrimoniali del creditore particolare del socio, rispetto alla società semplice; se ciò venisse confermato dalle successive analisi che effettueremo, emergerebbe certamente un deterrente alla trasformazione agevolata, e, nei casi in cui la stessa fosse già stata eseguita, si potrebbe presentare un problema.

Analizziamo, pertanto, il caso di un socio che detenga debiti personali, ed il suo creditore tenti di ottenere il soddisfacimento del credito rivalendosi sulla partecipazione in società e quindi chiedendo la liquidazione della quota. Quali sono in questo caso le azioni che la società può attivare per reagire a questa situazione che certamente la metterebbe in difficoltà? Se analizziamo la disposizione contenuta nell’articolo 2270, rientrante nel capo II del codice civile dedicato alla società semplice, emerge che il creditore particolare del socio di società semplice detiene un’ampia gamma di possibilità, riassumibili in tre opzioni:

  1. può far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al socio debitore;
  2. può eseguire atti conservativi sulla quota spettante al socio debitore in caso di liquidazione;
  3. nel caso in cui i beni personali del socio siano insufficienti a saldare il debito, può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore.

Si osserva in proposito che le tre opzioni sopra richiamate non prevedono, a differenza di quanto accade nelle società a responsabilità limitata, ai sensi dell’articolo 2471 del codice civile, l’espropriazione della partecipazione, poiché ciò costituirebbe un elemento di destabilizzazione della compagine societaria che il legislatore civile ha inteso evitare in un modello societario di persone per definizione “chiuso”, in cui la modifica al contratto sociale originario avviene solo con il consenso unanime dei soci.

Il creditore particolare del socio di società semplice può, tuttavia, ottenere, secondo quanto previsto in precedenza, la liquidazione della quota da parte della società, il che può certamente mettere in difficoltà la società stessa nel caso in cui (come spesso accade) essa non detenga le risorse finanziarie sufficienti.

Differenti appaiono le regole che disciplinano tale fenomeno nelle società in nome collettivo e in accomandita semplice. L’analoga previsione contenuta nell’articolo 2305 del codice civile  stabilisce, infatti, che il creditore particolare del socio non può chiedere la liquidazione della quota finché dura la società e ciò parrebbe costituire, da un lato, un ostacolo non superabile da parte del creditore e, dall’altro, una marcata differenza con quanto previsto a proposito del socio della società semplice.

Tale differenza, tuttavia, non deve essere troppo enfatizzata atteso che la giurisprudenza di legittimità ha in taluni casi riconosciuto, in deroga alle previsioni sopra descritte, il diritto del creditore particolare del socio ad eseguire l’espropriazione forzata della quota di partecipazione, legittimando, quindi, in estrema ratio, l’inserimento del creditore particolare del socio nella compagine societaria contro la volontà degli altri soci. Tale assunto è stato affermato in passato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 15605 del 7 novembre 2002, nei casi in cui lo statuto sociale abbia previsto una clausola di possibile trasferimento della partecipazione sociale, seppur limitato dal diritto di prelazione. Il ragionamento che sta alla base della citata pronuncia della Suprema Corte può essere riassunto in questi termini: poiché i soci nella loro autonomia pressoché assoluta di scrivere i patti sociali, hanno ritenuto non così essenziale la “blindatura” della compagine sociale, tanto che hanno previsto una clausola di libera circolazione delle partecipazioni, allora non ha senso applicare l’articolo 2305 del codice civile che proprio intende tutelare la “impenetrabilità” dall’esterno della compagine sociale.

Nella pratica, pertanto, la giurisprudenza di legittimità ammette che le partecipazioni in società in nome collettivo e accomandita semplice (e, quindi, a maggior ragione, delle società semplici) sono espropriabili dal creditore particolare del socio, nel caso in cui lo statuto sociale preveda la trasferibilità delle quote.

Detto questo, la soluzione per evitare tutto ciò risulta evidente: sarebbe sufficiente stabilire nello statuto l’impossibilità di circolazione delle quote, senonché una siffatta clausola statutaria risulterebbe di difficile accettazione da parte dei soci fondatori, in quanto eccessivamente vincolante.

In definitiva, per quanto attiene ai profili di responsabilità della società con riferimento alle obbligazioni personali del socio, nella maggior parte dei casi (ovvero quando non si decida per l’inclusione di una clausola che preveda l’intrasferibilità delle quote di S.n.c. e S.a.s.), il modello di società semplice appare certamente penalizzante, ma non tanto di più rispetto alle società in nome collettivo o in accomandita semplice.

In conclusione, pertanto, è possibile affermare che il creditore particolare non può in generale espropriare né richiedere la liquidazione in denaro della quota del socio debitore finché dura la vita della società. Tale previsione normativa contenuta nell’articolo 2305 del codice civile si applica certamente alle S.n.c. e alle S.a.s., ma occorre anche considerare che, secondo un indirizzo della Corte di Cassazione, se la società ha inserito nello statuto una clausola che rende possibile circolazione delle quote (clausola molto frequente), allora essa non è più tutelata nei confronti del creditore particolare, il quale potrebbe agire per chiedere alla società di liquidare la quota del socio debitore riducendo il capitale sociale. Per le società semplici, invece, il creditore particolare del socio può sempre agire a danno della società.

 

Fonte Euroconference Edizione di martedì 15 novembre 2016