Nel contestare che la rideterminazione del valore di avviamento sulla base di un determinato criterio non rappresenti idonea motivazione al fine di destituire di fondamento il valore dichiarato, non bisogna confondere tra motivazione e prova. Anche se il metodo di cui al DPR 460/96 è stato abrogato, viene lasciata piena libertà agli Uffici nell’adottare i criteri più idonei alla rappresentazione del veritiero valore di avviamento.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24939 del 06.12.2016, ha chiarito quali sono i criteri legittimamente utilizzabili ai fini della rettifica del valore di avviamento.

Nel caso di specie la Commissione Tributaria Regionale del Friuli-Venezia Giulia accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate e, in riforma della decisione di primo grado, respingeva il ricorso promosso dal contribuente contro l’avviso con il quale veniva rettificato il valore d’avviamento dell’azienda ereditata e per l’effetto liquidata una maggiore imposta di successione.

Il contribuente proponeva quindi ricorso per cassazione, deducendo, tra le altre, che la CTR non si era pronunciata sulla illegittimità degli avvisi di accertamento conseguente all’eccepita abrogazione del D.P.R. 31.7.1996 n. 460.

Il motivo di impugnazione, secondo i giudici di legittimità, era infondato, atteso che il giudice di secondo grado aveva implicitamente stabilito che l’avviso non poteva giudicarsi nullo, perché per la determinazione del valore dell’avviamento l’ufficio aveva esattamente e legittimamente utilizzato la presunzione contenuta nell’art. 2, comma 4, D.P.R. n. 460 cit. (cfr Cass. sez. lav. n. 1360 del 2016; Cass. sez. III n. 4079 del 2005).

Il motivo di censura era inoltre considerato dalla medesima Corte comunque inammissibile, perché, in realtà, il contribuente non lamentava un vizio motivazionale circa l’affermazione di esistenza o inesistenza di un fatto decisivo e controverso, bensì rimproverava la CTR di non aver spiegato, in diritto, l’applicabilità dell’art. 2, comma 4.  D.P.R. n. 460 cit.

Anche l’altro motivo di ricorso, per asserita violazione delle norme di cui agli artt. 51 D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 e 15 D.Lgs. 31.10.1990 n. 346, dato che, secondo il ricorrente, ai fini delle imposte di registro e successioni, il valore dell’azienda deve essere «quello venale di comune commercio», laddove «l’algoritmo adottato» ex art. 2, comma 4, D.P.R. n. 460 cit. non teneva per esempio conto delle variazioni economiche reddituali  verificatesi nel tempo, secondo la Corte, era infondato.

Secondo i giudici di legittimità, invece, la CTR aveva gravato espressamente l’amministrazione dell’onere di provare il valore dell’avviamento, semplicemente poi ritenendo che l’ufficio avesse fornito la prova richiesta sulla scorta della presunzione di cui all’art. 2, comma 4, D.P.R. n. 460 cit.

Nell’ambito dei giudizi instaurati avverso avvisi di rettifica, relativi alla maggiore imposta di registro accertata sul valore di avviamento di un’azienda oggetto di cessione, viene spesso imputata agli Uffici dell’Amministrazione la “colpa” di non adottare criteri idonei ad una sua oggettiva valorizzazione.

Come però fa capire anche la sentenza in commento, nel contestare che la rideterminazione del valore di avviamento sulla base di un determinato criterio non rappresenti idonea motivazione al fine di destituire di fondamento il valore dichiarato, non bisogna confondere tra motivazione e prova, laddove, se la modalità adottata dall’Ufficio nella determinazione del valore accertato sia idonea o meno, non attiene alla sufficienza o meno della motivazione, ma, semmai, alla sufficienza o meno della prova e quindi al merito della controversia (non censurabile in sede di legittimità).

Del resto, anche se il metodo di cui al DPR 460/96 è stato abrogato, viene lasciata però piena libertà agli Uffici nell’adottare i criteri più idonei alla rappresentazione del veritiero valore di avviamento (sempre comunque soggetti al vaglio di ragionevolezza delle Commissioni Tributarie).

Come a tutti noto, peraltro, l’avviamento non deve corrispondere alla redditività effettiva, ma alla redditività attesa dell’azienda. Il concetto di avviamento è dunque un concetto oggettivo, legato alle caratteristiche dell’azienda ceduta e non legato invece a eventuali giustificazioni soggettive del cedente.

Per valutare la congruità del valore di avviamento dichiarato dalle parti, l’Ufficio, tra i principali metodi di valutazione proposti dalla dottrina aziendalistica (metodo analiticopatrimoniale, metodo sintetico-reddituale, metodo misto patrimoniale-reddituale, metodo delle società comparabili, metodo del Market Value Added, metodo finanziario) di solito utilizza quello analitico – patrimoniale, determinando tale valore calcolando la media dei ricavi dei tre anni precedenti la vendita e successivamente aumentando tale media della percentuale che è comunemente applicata nel commercio per le vendite di esercizi commerciali di quel tipo ed in quella zona.

A tal fine viene di solito richiamato il listino dei prezzi delle aziende, edito dal Collegio degli Agenti di Affari in Mediazione, che fornisce il moltiplicatore che l’Ufficio utilizza per il calcolo.

E che del resto l’indicazione della metodologia di calcolo (dell’avviamento) basti ad assolvere all’obbligo di motivazione gravante sull’Ufficio è stato ormai più volte confermato anche dalla giurisprudenza.

Anche a fronte di tale orientamento giurisprudenziale, dunque, non può dubitarsi circa la validità della motivazione, laddove l’Ufficio abbia esplicitato la metodologia utilizzata, così da permettere al contribuente di esserne a conoscenza, di esercitare il proprio diritto e di opporsi laddove ritenga illegittima la rettifica.

Fonte Euroconference del  09.01.2017