Con la sentenza n. 21869 del 28 ottobre 2016, la Quinta Sezione Civile della Cassazione è intervenuta a chiarire la portata della contestazione di condotta antieconomica precisando che l’Amministrazione finanziaria può procedere con la stessa solo in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti che dimostrino l’inattendibilità della condotta medesima.

Nel caso specifico, il curatore del fallimento di una S.r.l. aveva presentato una richiesta di rimborso di un credito IVA a seguito della quale l’Agenzia delle Entrate, una volta effettuato un controllo sui documenti contabili, aveva rilevato la genericità dell’indicazione delle rimanenze delle materie prime e delle merci effettuata dal curatore.

Sulla base di tale genericità, facendo leva sull’incongruenza – reiterata nel tempo – della redditività, l’Ufficio aveva quindi ravvisato il presupposto per procedere ad accertamento analitico-induttivo, ex articolo 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973 e determinato maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati dal curatore. Quest’ultimo aveva quindi impugnato l’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia con cui la medesima aveva rettificato il reddito d’impresa, ottenendone l’annullamento dalla Commissione Tributaria Provinciale.

La Commissione regionale invocata in secondo grado aveva poi respinto l’appello dell’Ufficio, rimarcando la certezza dei dati indicati a titolo di rimanenze ed osservando come la scarsa redditività trovasse spiegazione nel fatto che la società fosse stata dichiarata fallita qualche anno dopo.

Investita della questione su ricorso dell’Agenzia delle entrate, la Corte di Cassazione ha innanzitutto riconosciuto come la corretta e specifica indicazione delle rimanenze fosse di  precipuo rilievo poiché, in base al principio di continuità dei valori di bilancio ex articolo 59 del D.P.R. 917/1986, le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali di quello successivo e le reciproche variazioni concorrono a formare il reddito di esercizio (Cass. 17298/2014 e n.  590/2015).

Ciò premesso, se è pur vero però che la generica indicazione delle rimanenze è, per conseguenza, idonea a legittimare l’accertamento analitico-induttivo previsto dal citato articolo 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973 perché in grado di far dubitare della completezza e dell’attendibilità della contabilità esaminata, è anche vero che “le rimanenze iniziali e finali, così come risultano dal bilancio di esercizio acquisito agli atti, rappresentano un dato certo”.

Così facendo, l’accertamento effettuato dall’Ufficio nel caso specifico trovava la sua ragione d’essere nelle sole  caratteristiche di antieconomicità della condotta imprenditoriale chiamata ad integrare le presunzioni gravi, precise e concordanti idonee a sostenere la pretesa impositiva accertata induttivamente.

A tal proposito, richiamando una recente pronuncia (Cass. n. 13468/2015), la Suprema Corte ha nondimeno ribadito come la contestazione riguardante l'”antieconomicità” del comportamento imprenditoriale richieda da parte dell’Amministrazione finanziaria la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta.

Tale inattendibilità, a detta della Cassazione, “va vista in chiave diacronica, con la precisazione che la stima della redditività dell’impresa, che costituisce oggetto della valutazione di antieconomicità, è di norma affidata alla comparazione di più indici, tra i quali spiccano quello che fa leva sul rapporto fra il reddito operativo ed il capitale complessivamente investito nell’impresa e quello che punta sul rapporto fra reddito operativo e ricavi dell’impresa, che, in particolare, evidenzia la percentuale del volume di affari”.

La Quinta sezione ha poi rimarcato come l’apprezzamento in ordine alla gravità, precisione e concordanza degli indizi posti a fondamento dell’accertamento compiuto con metodo presuntivo – nel nostro caso, in ordine all’antieconomicità della condotta – fosse relativo alla valutazione dei mezzi di prova e quindi rimesso in via esclusiva al giudice di merito (ex multis, Cass. n. 24437/2013 e n. 16743/2016).

Nel caso specifico, detto apprezzamento era stato svolto dal giudice d’appello, il quale aveva escluso la decisività del dato offerto dall’Ufficio, “atteso che la società nell’anno 2005 è stata dichiarata fallita“, lasciando quindi emergere l’attendibilità dei dati emersi in relazione alla condotta della società, la quale, proprio in ragione della sua antieconomicità, aveva subito il fallimento.

Poiché pertanto, dietro lo schermo della violazione di legge, l’Ufficio mirava a sovvertire l’apprezzamento compiuto in sentenza, la Cassazione ha rigettato il ricorso dichiarando inammissibile il motivo ivi contenuto.

Fonte Euroconference Edizione di lunedì 14 novembre 2016